in una sala d’aspetto 🙂 – non mi trovavo esattamente in uno studio medico- mi è caduto l’occhio su una copia di questa rivista mai vista prima (scusate la ripetizione) e ne sono rimasta colpita per la semplicità, il formato spesso (sembra un libro) l’assenza di fotografie (più o meno pubblicitarie..). Ho pensato che li dentro c’era sicuramente qualcosa d’interessante da leggere, almeno per me 🙂 ed è stato bello scoprire che la mia piacevole ed ingenua aspettativa, quella dei bambini, non è stata delusa. Sono rimasta molto colpita dalle parole che il direttore del notiziario della Rete Radié Resch ha scelto per riassumere la condizione di molte persone a cui certe cose del mondo, ciò che succede, come il mondo funziona.. stanno strette. Non sono parole estreme, ma puntano il dito su di una condizione scomoda, l’impossibilità di dare un nome e un cognome alle sofferenze di chiunque si aspetta un mondo diverso, non nuovo…solo più giusto. Così ho chiesto un incontro con il direttore, persona impegnatissima, che mi ha concesso una piacevole conversazione alla pari al bar Grazia e di poterlo pubblicare. Ne sono proprio contenta 🙂 il grassetto è mio (mi permetto questa piccola libertà).
un editoriale di Antonio Vermigli – dal n. 111 della rivista IN DIALOGO
L’ansia, sia pure inconsciamente, la fa da regina. Oggi, l’avere, l’apparire, tolgono alla vita il pensare, il fermarsi, il riflettere, fino a riempire anche i nostri tempi morti dentro uno stato di tensione costante. E così nella nostra cultura la morte rimane un tabù; perfino quando è spettacolarizzata. Quando prevale il calcolo e l’interesse a tutti i livelli, non c’è più spazio per la gratuità, l’interiorità e la contemplazione.
Eppure immagino che tutti noi vorremmo riuscire a vivere la vita come opportunità, come espressione di libertà, come incontro con l’altra/o, al fine di creare una giustizia sempre più marcata e tangibile dalle nostre scelte.
A molti di voi questo mio richiamo alla morte sembrerà contraddittorio, fuori tema, inopportuno ecc… Averla presente fa si che sappiamo apprezzare di più la vita, muoverci con più equilibrio e rapportarci alla morte in modo più naturale; suscitando intorno a sé comunione, serenità e senso di rappacificazione. Specie se aiutati da una profonda interiorità. Ci sono malati, perfino terminali, che lottano con se stessi, col personale sanitario, con gli amici per censurarla; altri invece la guardano in faccia. Non arrivano magari, come san Francesco, a considerarla sorella, ma riescono a gustare gli ultimi anni, o mesi, o giorni di vita con una intensità mai immaginata prima.
Un mio grande amico, che aveva vissuto una buona vita, piena di atti di generosità concreti, mi ha confidato anni fa, alcuni giorni prima di morire che la sua esistenza, ripassata nel tempo della malattia, non era stata quella che lui avrebbe desiderato. Dal suo punto di vista la vita era iniziata davvero, solo dopo essere stato colpito dal male. Quella notte abbiamo pianto insieme, a lui succedeva spesso anche quando stava bene, si commuoveva continuamente nel vedere la sofferenza.
In questo tempo di costante minaccia di recessione economica chissà che l’umanità non riesca ad assumere come metro di misura vero del progredire la qualità, abbandonando l’ossessione della quantità, per dare un senso a tutti i minuti che viviamo come se stare a riposo, pensare, formarsi, fosse un crimine o tempo perso. È quel tempo li che manca, che è il tempo della pausa mentale del riposo della riflessione interiore. Il progresso ha migliorato la nostra vita per mille ragioni ma ha elevato i bisogni rendendoci quasi schiavi.
Sarebbe il trionfo della nostra interiorità celata. Un ben altro rapporto con il tempo della nostra vita.